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Atessa: dieci anni di solitudine

Lo sguardo amaro di chi torna in paese dopo del tempo

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Non voglio informare, ma voglio raccontare come fanno i contastorie oppure le nonne.

Raccontare cosa guardo e  cosa provo tra la gente e per le strade di Atessa, il paese dove sono nata e cresciuta per poi andare via, lontano, a 700 km verso Nord Ovest. Lo racconto a te, che la vivi e la respiri ancora, anche solo nella tua memoria in bianco e nero, quando ancora credevi alle favole dei principi e dei draghi.

E noi il drago ce lo abbiamo, quello senza nome ma con una costola, custodita nei racconti delle maestre tra i banchi delle elementari – il primo esempio di storytelling – e nascosta nei sotterranei della cattedrale di San Leucio – altro che  Smaug  sotto la montagna di Ebor ne il  Signore degli Anelli.

Lo sai anche tu che la nostra è una leggenda che avrebbe potuto ispirare uno scrittore di fantasy o il programmatore di un videogame, prima che la percentuale di analfabetismo in Italia non sfiorasse il 70 per cento, e la spirale dei social network non inghiottisse il tempo della vita e delle relazioni.

Ed è proprio di vita e relazioni che voglio dire e a modo mio, ma rivolgendomi a te  che lo vivi questo paese e ti relazioni con  la sua gente,  tra i colli di Santa Croce e San Michele: Atessa, un paese che resta sulla carta geografica - come quelle che espone in veste xilografica  Piergiorgio -  sopravvive nei ricordi di chi lo abita  dietro le finestre o negli angoli di quartiere - come quelli che raccontava zia Marietta quando andavo a trovarla "abballe pi li scalette de l'arche 'Ndriane" -  ma si svuota di anime e  di vita ad ogni mio ritorno, quando capita, quando posso.  

Ritorno ” arrete a l’asile”,  una delle vie più tristi e più fredde, di passaggio per tutti ma abbandonata da molti; una via che pure affaccia su una terrazza naturale, sulla Grande Maya alla tua sinistra e sul Mare Adriatico alla tua destra. Ti sei mai fermato a guardare questa bellezza, nelle ore del tramonto, con l’acacia che si sveste di bianco e la vallata si dipinge di rosa?

Non credo, perché senza un marciapiede, con la ringhiera di ruggine, nel zig- zag tra le macchine, come puoi fare?  Non ti resta che continuare a premere l’acceleratore, arrivare allo stop e svoltare a destra. A sinistra, invece, non ci pensi neppure se non quando suonano a festa del campane della cattedrale,  oppure è l’ora del pranzo e ti manca il pane, o due etti di prosciutto se proprio hai fame.

Hai mai provato ad andare oltre la bottega  di Giocondo, la tabaccheria di Angelo e il negozio di Piretti? Forse si, ma il più delle volte per tornare indietro, perché tra saracinesche abbassate a metà, case in vendita da mesi e silenzi di cemento, cosa hai da fare? Meglio andare via, verso la valle, e pure al di là.

Al di là del vuoto e del silenzio: non c’è passo d’uomo o di bambino se non in alcuni momenti del giorno, magari se c’è il sole, o se il calendario segna la domenica. Per il resto, solo qualche bisbiglio da dietro le persiane che affacciano sul corso, o il solito chiacchiericcio dalle porte dei bar in piazza. Tutto intorno,  non c’è neppure l’ombra sfocata di un’anima solitaria  a dare voce ad un “ciao, come stai, posso offrirti un caffè”.  Un caffè che avrebbe un sapore misto di amarezza e nostalgia.

E con l’amaro in bocca e la nostalgia dei ricordi mi torna in mente Gabriel Garcia Marquez e il suo romanzo più intenso: e se per lui erano "cento", per me sono dieci: dieci anni di solitudine. Dieci anni  dall’ultima immagine che mi scorre davanti la memoria di un paese vivo, ruvido, colorato di gente e pieno di passioni. Dieci anni e poco più da quando sono andata via, lontano, a 700 km verso Nord Ovest.

 

 

 

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