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Realtà Sevel: operai abruzzesi spremuti come limoni e “puniti” sottraendo loro parte della produzione

La delocalizzazione di una fabbrica FCA ridimensiona le possibilità di reddito e sviluppo sostenibile locale

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Nonostante a livello mondiale il mercato dei veicoli commerciali non sia affatto in crisi, la SEVEL di Val di Sangro (PSA è la società multinazionale proprietaria frutto di un'alleanza industriale-commerciale, una joint venture paritetica tra Fiat, Peogeot e Citroën) decide di delocalizzare parte della produzione del “Ducato”. Gli operai dello stabilimento del gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles), dall'insediamento (1981) ad oggi, sono stati intensamente sfruttati, mai adeguatamente retribuiti a dispetto dell'alta produttività raggiunta con turni di lavoro anche nei giorni festivi (le cosiddette “comandate” al sabato di straordinario sono strutturali; grazie a questa iperproduttività, nel 2018 sono stati prodotti oltre 297mila furgoni rispetto a 292mila del 2017), gravosi carichi di lavoro, compromissione dei diritti alle pause e sebbene i profitti aziendali siano stati annualmente crescenti.

La “produzione complementare” avverrà in Polonia fino al 2021, con lavoratori disponibili a bassi salari e privi di tutele per fare in modo che i nuovi volumi che l'azienda esige siano garantiti. Lo “schiavismo” non ha confini e diventa illusoria la rivendicazione del "salario unico europeo". Piuttosto che assumere, quindi, la SEVEL trova conveniente spostare la produzione, dimenticando la “dedizione” della manovalanza abruzzese.

Dal primo semestre 2012 sono stati venduti sul pianeta oltre 40 milioni di veicoli, con elevati percentuali di crescita, stabilendo inediti record di vendite; inoltre, i costruttori europei – grazie alla gestione antisindacale e ai bassi salari - si sono difesi, per essere presenti sui mercati generati dalla globalizzazione, contrastando la cosiddetta “crisi” grazie alla compressione della variabile forza-lavoro. Va ricordato, infatti, che, nello stesso 2012, Sergio Marchionne, l'AD FCA, procedeva indisturbato alla “disdetta degli accordi sindacali, uscendo da ConIndustria e sospendendo – di fatto – i diritti costituzionali degli operai e dipendenti amministrativi delle fabbriche del gruppo all'interno delle mura aziendali, ritenendo di dover allineare il sistema produttivo italiano agli standard competitivi internazionali; secondo tali standard ispirati alla logica del capitalismo globale, la Direzione aziendale ha considerato obsoleto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro e ha contribuito a far abrogare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge 20 Maggio 1970, n° 300).

Da atti parlamentari abbiamo appreso che il progetto «Fabbrica Italia» avviato da Fiat nel 2010 prevedeva 20 miliardi di euro di investimenti e un milione e quattrocento mila auto prodotte in Italia; secondo tale piano, a Mirafiori la produzione doveva essere aumentata di circa 100 mila vetture, a Melfi di 400 mila e a Pomigliano di 250 mila, mentre a Cassino i volumi dovevano essere quadruplicati, alla SEVEL dovevano essere prodotti 240 mila veicoli commerciali all’anno, mentre era confermata la chiusura di Termini Imerese; a Mirafiori nel 2011 la produzione di auto si è fermata a quota 63 mila, dal 2007al 2011 la produzione di Melfi è scesa da300 mila a 230 mila automobili, e quella di Cassino da 150 mila a 131 mila, mentre lo stabilimento di Pomigliano nel 2011 non ha sfornato più di 12 mila macchine. L’unico stabilimento dove il lavoro viaggia a ritmi regolari è SEVEL che produce veicoli commerciali nella valle teatina del fiume Sangro. Ma tutto questo non è servito per scippare alla realta SEVEL ciò che ha creato: il prodotto e la professionalità.

Del progetto «Fabbrica Italia» rimane solo la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese; la cassa integrazione è ormai arrivata in tutti e quattro i grandi stabilimenti del gruppo: a Mirafiori, a Melfi, a Cassino e a Pomigliano, dove è uscita la prima nuova Panda, che non vendeva come sperato (da qui, la decisione di delocalizzazione in Polonia e Brasile ...), e dove la cassa integrazione ha riguardato 2.150 dipendenti tra il 20 e il31 agosto 2012.

Da ciò che sappiamo risulta evidente che FCA non si è rivelata in grado di mandare avanti gli stabilimenti produttivi, per mero calcolo dell'utile padronale, pensando necessario trovare alternative all'estero per scongiurare eventuali ipotesi (nel caso SEVEL, assolutamente infondate) di margini di profitto in riduzione. La prospettiva industriale dell'Abruzzo – nonostante l'ottimismo sindacale ed in mancanza d'una strategia che punti esclusivamente a produzioni “sostenibili”– inizia a restringersi palesando il vero contenuto del piano «Fabbrica Italia»: il fatturato deve crescere a qualsiasi costo, compreso il costo del lavoro operaio.

Il clima relazionale imposto in fabbrica è, tra l'altro, da tempo contraddistinto da subalternità e autoritarismo. Segnaliamo quanto, nell'Aprile 2017 alla SEVEL di Atessa, accadde: un caporeparto non ha fatto sospendere l'attività e ha chiesto agli altri lavoratori di far finta di non vedere il corpo a terra di un operaio addetto allo svolgimento delle attività di montaggio svenuto dopo aver battuto la testa; certo, i compagni di lavoro hanno incrociato per protesta le braccia per un’ora e allo sciopero hanno partecipato pressoché tutti i venti addetti all’Ute (Unità tecnologica elementare). Nel Febbraio 2017 un operaio, dipendente della stessa azienda in Val di Sangro, è stato costretto a urinarsi addosso perché non gli avrebbero fatto lasciare la catena di montaggio. Nel Maggio scorso, si è saputo che i lavoratori SEVEL non possono utilizzare i piazzali di sosta se possiedono un'auto di un marchio concorrente. Rammentiamo anche che il rappresentante sindacale presso la SEVEL, Bruno Pierfrancesco, ha effettuato lo sciopero della fame ad oltranza a sostegno della vertenza che ha visto coinvolta l'operaia Rosanna Bonomini; licenziata nel gennaio 2000 per avere superato il periodo di malattia lunga a seguito dell'aggravarsi del suo stato di salute già precario. Infine, lasciamo sullo sfondo il caso, dai contorni non ben definiti, della cocaina anti-stress, proposta ad operaie in difficoltà nel mantenere i ritmi imposti nei reparti, a tal punti che a Lanciano, la metà degli utenti del Sert è costituita da operai della vicina SEVEL.

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