Negli ultimi giorni, molte testate hanno raccontato la storia di una famiglia che vive tra i boschi dell’Alto Vastese, descrivendo tre bambini “sottratti alla civiltà” da genitori che avrebbero deciso di crescere i figli lontani dalla scuola, dai medici e dall’elettricità.
Titoli forti, parole che evocano paura, isolamento, pericolo.
Ma dietro la superficie, la realtà — come spesso accade — è molto più complessa, e forse anche più onesta di quanto certi riflettori lascino intendere.
Una casa nel verde, non nel silenzio
La famiglia in questione non vive in una grotta né in una baracca.
Abita un vecchio casolare ristrutturato tra i boschi del Vastese, alimentato da pannelli solari che forniscono luce ed acqua calda durante il giorno, e riscaldato da una stufa a legna.
C’è un pozzo con sistema di filtraggio, spazi puliti, libri, strumenti musicali e materiali didattici.
Non si tratta di una vita di stenti, ma di autosufficienza: un modello ecologico che altrove sarebbe definito “sostenibile”.
I genitori, entrambi laureati e con esperienze nel campo educativo, hanno scelto di praticare l’istruzione parentale, una forma legale e riconosciuta dallo Stato italiano, che permette di istruire i figli in casa, a patto che superino ogni anno gli esami di idoneità.
E così avviene: la figlia maggiore li ha già sostenuti con esito positivo.
Libertà educativa o abbandono?
La legge italiana — articolo 30 della Costituzione e decreto legislativo 297/1994 — parla chiaro:
l’istruzione è obbligatoria, non la frequenza scolastica.
Il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni è garantito, purché non venga meno la tutela del minore.
Eppure, in questo caso, le istituzioni hanno ritenuto di dover intervenire: la Procura per i minorenni dell’Aquila ha chiesto di limitare la responsabilità genitoriale, parlando di “situazione di grave pregiudizio”.
Il rischio, però, è che la parola “pregiudizio” diventi letteralmente un pre-giudizio: un giudizio anticipato, che non tiene conto di un modello alternativo di vita che non corrisponde ai canoni consueti, ma non per questo è sbagliato.
I bambini stanno bene
Secondo gli avvocati e le testimonianze raccolte, i tre bambini sono sereni e in salute.
Sorridono, partecipano alla vita domestica, studiano, leggono, disegnano.
Hanno un legame affettivo profondo con i genitori e percepiscono la loro quotidianità non come privazione, ma come libertà.
Giocano all’aperto, imparano dal mondo reale, osservano gli animali, coltivano la terra, parlano più lingue.
Quando un ispettore o un giornalista li descrive, spesso nota qualcosa che raramente si trova nei bambini cresciuti in città: uno sguardo tranquillo e curioso.
Nel cuore della questione
La domanda, dunque, non è “vivono nel bosco?”, ma “vivono bene?”.
E la risposta, a quanto emerge, sembra essere sì.
La casa è autonoma, pulita, efficiente.
La didattica è seguita e controllata.
La salute è monitorata da un pediatra di riferimento.
L’unico elemento “anomalo” è la distanza dal modello urbano di vita, che molti confondono con arretratezza.
Ma forse il vero tema non è la distanza, bensì la libertà di scegliere un ritmo diverso.
Viviamo in un Paese dove l’omologazione è spesso la regola: chi si discosta dalla massa viene guardato con sospetto.
Eppure, quando una famiglia decide di vivere in modo più semplice, autosufficiente e naturale, viene giudicata come pericolosa.
È un paradosso tutto italiano.
La verità che resta
La verità, probabilmente, sta nel mezzo.
Lo Stato ha il dovere di vigilare, certo: di garantire che i minori abbiano salute, istruzione, sicurezza.
Ma i genitori hanno il diritto di proporre un modello educativo e ambientale diverso, purché non lesivo.
Finora non risultano segnalazioni di violenza, né maltrattamenti, né abbandono.
Solo una famiglia che vive secondo ideali ecologici e pedagogici fuori dal comune.
Forse è più facile etichettare che capire.
Ma ogni volta che lo facciamo, dimentichiamo che la libertà educativa, quando esercitata con responsabilità, è una delle forme più alte di amore.
Conclusione
Nel bosco, i bambini di questa storia non sono fuori dal mondo.
Stanno imparando a conoscerlo in modo diverso: non attraverso i muri di un’aula, ma con le mani nella terra e lo sguardo al cielo.
Non è un modello per tutti, ma nemmeno un crimine.
E forse, in fondo, il compito di una società giusta non è uniformare, ma riconoscere e rispettare la diversità quando non fa male a nessuno.